La cultura come motore della crescita economica

12-02-2013

I tagli che, negli ultimi anni, hanno pesantemente colpito l’istruzione in Italia, a tutti i livelli, ripropongono con forza la questione del ruolo che il sapere e, più in generale, la cultura, svolgono in un paese moderno.

Nemmeno un presidente del consiglio legato al mondo universitario, come Mario Monti, ha mostrato grande interesse per un tema come l’istruzione, tant’è vero che nella cosiddetta “Legge di stabilità”, varata poco prima delle dimissioni del governo, sono stati sottratti ulteriori 300 milioni di euro dagli stanziamenti da destinare all’università. Non parliamo poi di altri aspetti della cultura: le biblioteche rischiano di chiudere per carenza di fondi e comunque la loro attività ne risulta spesso notevolmente ridimensionata; le risorse per i musei, i teatri, il cinema, le manifestazioni musicali si fanno sempre più esigue; i luoghi di interesse archeologico, ricchezza per la quale l’Italia non ha eguali nel mondo, si deteriorano irrimediabilmente per mancanza di restauri. Sono a rischio i documenti e le testimonianze concrete che costituiscono la memoria storica dell’intera tradizione occidentale.

La domanda cruciale che, a questo punto, s’impone è: la cultura rappresenta un lusso a cui bisogna saper rinunciare nei momenti di gravi difficoltà economiche, perché – come ha detto un politico di cui non vale la pena ricordare il nome – “con la cultura non si mangia”, oppure è da considerare, essa stessa, una componente essenziale dello sviluppo economico di un paese?

Per rispondere adeguatamente a questo interrogativo è necessario innanzitutto definire con chiarezza cosa sia da intendere per cultura. Per quel che mi riguarda, credo che ad essa vada attribuito un significato assai più ampio di quello che solitamente le si riconosce.
La concezione più diffusa della cultura, che si potrebbe definire “popolare”, tende a identificare la cultura con il sapere consolidato. Corrisponde sostanzialmente all’idea di fondo che permea l’istruzione tradizionale, per la quale le istituzioni scolastiche dovrebbero essere finalizzate a far acquisire alcune abilità fondamentali (non troppo lontane da quel “leggere, scrivere e far di conto” caro ai nostri nonni), oltre che a trasmettere i contenuti relativi ad un certo numero di argomenti, in particolare quelli su cui verrà costruita la futura professione.

Si tratta – com’è facile rendersi conto – di una concezione della cultura sostanzialmente conservatrice, che poteva andar bene in un mondo statico, come nella società medievale, dove l’apprendimento maturato in gioventù era largamente sufficiente per il resto della vita. Si rivela invece del tutto inadeguata in un mondo in rapida trasformazione e profondamente interdipendente, come quello attuale, caratterizzato da trasporti e comunicazioni rapidissimi, che pongono in una relazione sempre più stretta popoli e culture spesso molto differenti tra loro.
Oggi non bastano più i saperi e le abilità consolidati, perché essi divengono rapidamente obsoleti. E’ necessario aggiornare costantemente il proprio bagaglio culturale e le proprie competenze professionali per restare al passo coi tempi. Si richiede una apertura mentale impensabile solo poche decine di anni fa, la disponibilità a confrontarsi con idee, valori e costumi diversi dai propri. Soprattutto si richiede una propensione al cambiamento che deve essere sviluppata negli anni della formazione e mantenuta integra nel tempo tramite un ininterrotto impegno personale.

Ciò che occorre è quindi un radicale mutamento di prospettive, che è prima di tutto culturale. Va ripensato a fondo l’intero modello di istruzione, al quale non deve più essere richiesto soltanto di trasferire contenuti e competenze di base, ma anche di promuovere atteggiamenti mentali e disposizioni coerenti con la realtà del mondo attuale. Bisogna sviluppare la capacità di adattarsi ai cambiamenti, che saranno via via più rapidi e profondi, come pure la capacità di nuovi apprendimenti in età adulta, nell’ottica di una formazione che prosegua durante tutto l’arco della vita (formazione continua). Un posto importante dovrà essere riservato alla creatività, da non considerare più come qualcosa che riguarda essenzialmente il mondo dell’arte – un mondo collocato in una propria realtà, spesso estranea alla realtà effettiva – ma una dote centrale per lo sviluppo sociale e produttivo di un paese, e come tale incoraggiata fin dalle prime classi scolastiche. Allo stesso modo, dovranno essere coltivati con particolare cura l’autonomia di pensiero e le attitudini critiche, necessarie per orientarsi opportunamente nella gran quantità di sollecitazioni a cui è soggetto l’individuo in un mondo globalizzato.

In un simile contesto, la cultura, intesa nel senso ampio sopra descritto, si rivela non soltanto fondamentale per rapportarsi in maniera costruttiva con i diversi aspetti del mondo contemporaneo, ma diventa un presupposto essenziale per lo stesso sviluppo economico di un paese.

La grande sfida posta all’occidente dai paesi emergenti, che stanno invadendo i mercati internazionali con una massa enorme di beni a basso prezzo, non è quella di riuscire a competere con loro sul piano del contenimento dei costi di produzione (come qualcuno ancora si attarda a credere), quanto piuttosto quella di superarli sul piano della qualità e della novità dei beni offerti. Ciò implica un grande sforzo di creatività, capacità di innovazione, e soprattutto di ricerca senza restrizioni di sorta.

Si tratta di una sfida prettamente economica, ma che in tempi lunghi non potrà non avere ricadute rilevanti anche sul piano culturale. Non è certo un caso se la Cina, paese che attualmente ha maggior peso tra quelli emergenti, accanto ad aggressive politiche di penetrazione economica, stia aprendo in tutto il mondo migliaia di scuole di lingua mandarina e di cultura cinese.

La risposta dell’occidente deve essere appropriata alla situazione. Non una risposta difensiva, tesa, magari con misure protezionistiche, a ostacolare la diffusione dei prodotti che vengono dai nuovi paesi. Si richiede piuttosto di battere questi paesi sul piano dell’innovazione, ponendo sul mercato beni e servizi che essi non sono ancora in grado di produrre.
Questo significa riunire tutte le energie e le risorse disponibili in un grande progetto comune che coinvolga tutti i paesi dell’occidente: non solo l’Europa, ma anche gli Stati Uniti. Non è più il tempo delle divisioni, degli egoismi nazionalistici, della cura degli interessi particolari. Lo sforzo deve essere unitario e sinergico. Nel campo della ricerca, ad esempio, invece che disperdere le attività in una moltitudine di strutture in competizione tra loro, bisogna istituire grandi centri nei quali operino, fianco a fianco, ricercatori di varie nazioni, con fondi messi a disposizione dalle nazioni partecipanti, le quali potranno poi beneficiare dei risultati raggiunti. Alle giovani generazioni va offerta una formazione adeguata, con frequenti scambi tra studenti di vari paesi, anche nell’ottica di sviluppare la capacità di lavorare in gruppo e in contesti che possono cambiare rapidamente. La creatività, lo spirito d’iniziativa, oltre che l’impegno personale, andranno stimolati ad ogni livello, preferibilmente tenendo conto della specificità dei singoli individui.

In questo mutamento di prospettive, una parte importante, anzi fondamentale, compete alla politica, che deve impegnarsi in una grande opera di pianificazione, dando poi ad essa un seguito in termine di provvedimenti che si succedano nel tempo e in coerenza tra loro. Purtroppo i politici, e in special modo i politici nostrani, sono soprattutto attenti ai consensi immediati, alla visibilità nel breve periodo; gli investimenti in istruzione e ricerca danno invece risultati soltanto in periodi medio-lunghi, di solito dell’ordine di alcuni anni. Si spiega così l’evidente disinteresse per questi temi da parte della politica, al di là delle grandi dichiarazioni di principio. Disinteresse che sta portando l’Italia agli ultimi posti nel mondo per quanto riguarda la qualità dell’istruzione impartita nelle sue scuole.

L’ultima speranza è dunque riposta nei cittadini, almeno in coloro che sono ancora in grado di distinguere le questioni importanti dal polverone inconcludente sollevato dal cosiddetto “dibattito politico”. Da essi, soprattutto da quanti svolgono un ruolo di rilievo nella società – giornalisti, operatori sociali, scienziati, filosofi, intellettuali in genere – si richiedono prese di posizione decise, proposte, critiche e anche iniziative di una certa risonanza: l’istruzione e la ricerca devono essere portate al centro dell’attenzione pubblica, così da diventare un valore ampiamente riconosciuto. Solo a queste condizioni i politici saranno costretti a occuparsene seriamente per timore di perdere consensi.

L’alternativa potrebbe essere molto tragica, almeno per alcuni paesi d’occidente, tra cui presumibilmente l’Italia. Potrebbero vedersi – questi paesi – colonizzati economicamente nel giro di 20-30 anni dalle grandi potenze emergenti, avere lavoratori sempre più dequalificati che assemblano componenti prodotti da altri, con salari sempre più bassi e povertà crescente per buona parte della popolazione. A questo seguirebbe con tutta probabilità – e non si tratta di un’ipotesi fantascientifica – una colonizzazione sul piano culturale, che sarebbe qualcosa di ben diverso da un confronto alla pari tra culture diverse, con integrazioni interessanti e inediti sviluppi. Si tratterebbe piuttosto di una imposizione da parte di un paese dominante, che non potrebbe che portare a una progressiva obsolescenza della nostra identità storica e culturale, oltre che a un profondo ridimensionamento, a livello mondiale, di quanto la riflessione dei pensatori occidentali ha elaborato nel corso dei secoli.


Parole chiave: cultura scuola economia politica