La politica economica del rag. Tremonti

12-07-2011

Giulio Tremonti ha ottenuto un riconoscimento pressoché unanime, anche a livello internazionale, per la sua capacità di tener sotto controllo i conti pubblici italiani. In effetti, a differenza della gestione “allegra” della spesa da parte dei governi degli anni ’80, di craxiana memoria, che ha lasciato alle generazioni future un debito enorme, Tremonti sembra deciso a non fare alcuna concessione su questo versante.

Per ottenere i suoi obiettivi, egli però non ha esitato ad effettuare pesanti tagli ai vari ministeri, senza alcun criterio di priorità, senza preoccuparsi delle conseguenze per i cittadini. Abbiamo avuto così una drastica riduzione delle risorse destinate alla sanità, all’istruzione pubblica, alla ricerca, ai servizi sociali, alla cultura, ecc.

I conti pubblici sono salvi, almeno per il momento. Ma a che prezzo! E per quanto tempo? L’economia è ferma, le aziende sono in forte difficoltà, la disoccupazione, specie quella giovanile, tende a crescere. Non c’è sviluppo. Quindi non c’è da aspettarsi un aumento delle entrate per lo Stato, sotto forma di imposte pagate da chi produce beni e servizi.

L’ottica di Tremonti si sta rivelando assai miope, preoccupata per l’immediato presente, ma non per il futuro del nostro Paese. L’ottica del piccolo ragioniere, appunto. Del resto, cosa dovremmo aspettarci da chi, per buona parte della sua vita ha fatto il fiscalista, occupandosi cioè di come far pagare meno tasse ai ricchi?

Le tematiche dello sviluppo e della crescita, irrinunciabili per un vero rilancio del ruolo economico dell’Italia nel mondo e una maggiore prosperità per i cittadini, sono del tutto estranee a una simile mentalità. O meglio, vi rientrano in maniera marginale, purché siano a costo zero, per le casse della Stato.

Ma come si potrebbe coniugare il rigore nella tenuta dei conti pubblici con la disponibilità di risorse economiche da impegnare per dare un consistente stimolo all’economia?
Le risorse necessarie possono venire soltanto da una seria lotta all’evasione fiscale, combattuta su vari fronti, senza guardare in faccia a nessuno. Non si tratta tanto di approntare nuove tecniche e strumenti per “stanare” gli evasori. In questo la Guardia di Finanza, nonostante la cronica scarsità di mezzi di cui dispone, compie già un buon lavoro, scoprendo ogni anno decine di miliardi di tasse non pagate. Il problema sta nell’effettivo recupero, che leggi farraginose, regolamenti contorti e non di rado contraddittori, introdotti a poco a poco dal potere politico per proteggere gli amici, hanno reso sempre più difficile e talvolta impossibile.

Perché altrimenti un Valentino Rossi, a cui è stata contestata un’evasione per 110 milioni di euro, ha potuto sanare la sua “pendenza” con lo Stato italiano sborsando solo una ventina di milioni, e per giunta a rate? La ragione non può essere che questa: lo stesso Stato, a causa dei meccanismi voluti dai suoi rappresentanti, non era sicuro di poter recuperare l’intero importo.

La conclusione che dobbiamo trarre, allora, è la seguente: i soldi per una seria politica di rilancio dell’economia italiana ci sarebbero. Si tratta di recuperare una fetta consistente dell’evasione fiscale, che secondo stime prudenti si aggirerebbe sui 100-120 miliardi di euro all’anno.

Purtroppo, se la destra appare restia a scontentare gli amici che contano, facendo pagare le tasse dovute, da parte del centro-sinistra non è giunta finora alcuna proposta seria e organica tesa a migliorare la situazione.

Il vuoto di idee e la mancanza di coraggio nel prendere iniziative robuste è praticamente totale. E ciò non lascia ben sperare per il nostro futuro.


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