Considerazioni su un piano in 10 punti

24-04-2010

Essendo pienamente convinto che uno dei principali motivi dell’attuale debolezza del PD sia la mancanza di proposte concrete sulle cose da fare, ho letto con interesse le “10 proposte per uscire dalla crisi”. C’è un indicatore molto semplice per distinguere una proposta credibile dalla pura propaganda: le proposte che comportano un impegno di spesa devono essere accompagnate da indicazioni chiare su dove si prendono i soldi necessari. Se questo manca, siamo ancora una volta alle dichiarazioni di buona volontà, che difficilmente potranno tradursi in pratica.

Mi dispiace dirlo, ma, delle 10 proposte presentate, ben 6 (e precisamente la 1, 2, 3, 4, 8 e 9) comportano impegni di spesa, alcuni molto consistenti, mentre non ce n’è neppure una che indichi delle nuove entrate, se si eccettua la proposta di Damiano (al di fuori dei 10 punti) che ipotizza un “contributo di solidarietà” del 2% per i redditi superiori ai 200 mila euro.


Se questo è il modo con cui il PD pensa di affrontare i problemi italiani, credo che le speranze che torni al governo in tempi non troppi lunghi siano davvero molto ridotte.Riconosco che è molto facile avanzare critiche, mentre è assai difficile fare proposte che stiano in piedi. Per questo motivo, voglio provare a suggerire delle integrazioni al piano, capaci di dargli maggiore credibilità.

I campi su cui intervenire sono abbastanza condivisibili, anche se, per una valutazione adeguata, essi dovrebbero essere precisati meglio. Mi permetto solo di rilevare che tra i punti indicati ne manca uno importante: la riforma della giustizia. Ovviamente, non intendo la riforma che ha in mente Berlusconi, tesa a imbavagliare i giudici e a rendere le intercettazioni più difficili, ma quella che interessa i cittadini, rivolta a rendere più rapidi i processi. Il funzionamento della giustizia incide anche sull’economia del nostro Paese: non si è detto tante volte che molte aziende straniere non investono in Italia a causa dei tempi interminabili per risolvere i contenziosi?

Riguardo alle risorse da reperire per far fronte alle spese che l’attuazione dei punti comporta, sono fortemente contrario a iniziative estemporanee (che vengono per lo più vissute come punitive nei confronti dei ricchi) come il ventilato prelievo aggiuntivo sui redditi alti. Peggio di questo c’è solo la famigerata “patrimoniale”.

Credo invece nell’opportunità di una redistribuzione dei redditi, attuata però attraverso un riordino complessivo degli scaglioni e delle aliquote, anche prevedendo maggiori sgravi per i redditi più bassi. All’interno di una simile strategia complessiva (e solo in questo caso) diviene assai più accettabile introdurre un’aliquota aggiuntiva (al 46-48%) per i redditi superiori ai 150-200 mila euro.

Un’altra componente importante della redistribuzione dei redditi è senz’altro la lotta all’evasione fiscale. Oggi ci sono i mezzi (se c’è la volontà politica), dotando la GdF di uomini e strumenti adeguati, per proporsi l’obiettivo di recuperare 5-6 miliardi di evasione durante il primo anno e non meno di 8-10 il secondo. Per rendere ancor più realistico il raggiungimento di un simile obiettivo, bisognerebbe prevedere delle verifiche trimestrali per non incorrere in brutte sorprese finali. Da evitare, invece, perché di scarsa efficacia e vessatori nei confronti dei cittadini, interventi come il divieto di pagamento in contanti per somme superiori ai 100 euro (difeso anche molto recentemente da autorevoli rappresentanti del PD). Non si deve complicare la vita ai cittadini, ma renderla più semplice! La lotta all’evasione si fa incrociando i dati relativi al possesso di barche, auto di grossa cilindrata, appartamenti di lusso, con i redditi dichiarati. Con gli strumenti informatici oggi disponibili, è possibile, in tempi ragionevoli, procedere a un simile incrocio per tutta la popolazione italiana e colpire pesantemente chi fa il furbo.

Accanto all’evasione fiscale, in funzione redistributiva e reperimento risorse, c’è anche la lotta al lavoro nero, che specie nelle regioni del Sud, raggiunge percentuali altissime. Si tratta di attività, spesso gestite dalla malavita organizzata, che non solo sottraggono ingenti risorse allo Stato in termini di imposte non pagate, ma costituiscono anche una forma di concorrenza sleale nei confronti degli imprenditori che rispettano le regole. Vale qui la pena ricordare l’esempio del crollo del distretto tessile di Prato, provocato, sì, dalla crisi economica, ma soprattutto dalla concorrenza delle aziende illegali cinesi, contro le quali nessuno ha fatto nulla, nonostante i molti gridi di allarme lanciati dagli imprenditori “regolari”.

Al termine della lista, sempre in termini di risorse da reperire, porrei la tassazione dei guadagni di borsa al 20%. Mi sembra profondamente ingiusto che la tassa minima pagata da un lavoratore sia del 23%, quella di una azienda si avvicini al 50%, mentre chi specula in borsa senza produrre nulla di utile per gli altri, debba cavarsela con un ridicolo 12,5%. Elevare la tassazione solo a chi compra e vende azioni o derivati, lasciando immutata (almeno un primo momento) la situazione per le obbligazioni e i dividendi azionari, risolverebbe anche l’annoso problema di come evitare di colpire i titoli di Stato posseduti dalle famiglie italiane.

Le proposte che ho riportato rappresentano solo un esempio di come si dovrebbe procedere in un’ottica globale e di largo respiro. Probabilmente si tratta ancora di proposte insufficienti, ma a mio avviso, questa è la strada da seguire: favorire le classi meno abbienti, far pagare qualcosina di più ai ricchi, colpire pesantemente chi non paga il dovuto.


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